sabato 29 marzo 2008

Le foto di Eyes Wide Ciak!

L'occhio di Eyes Wide Ciak! è puntato direttamente sul cinema.


Raoul Bova foto di Valentina Ariete


Da oggi non vi delizio soltanto con le mie recensioni, le citazioni, i racconti delle conferenze stampa e quant'altro, ma vi porto ad un palmo dai divi, dagli attori più amati e famosi, con le foto che scatto ai photocall delle anteprime.

Il cinema quasi in diretta, sempre da più vicino!

Ecco la galleria di foto di Eyes Wide Ciak!

Tutte le foto sono scattate dalla sottoscritta, me medesima, Valentina Ariete.

The Show Must Go On!


Steve Buscemi foto di Valentina Ariete


venerdì 28 marzo 2008

Citazione cinematografica n. 8

"Mi nombre es Inigo Montoya. Tu hai ucciso mio padre. Preparati a morir!"

da: La Storia Fantastica

Mandy Patinkin nel ruolo di Inigo Montoya


Original: Hello, my name is Inigo Montoya. You killed my father. Prepare to die!


Titolo originale: The Princess Bride
Regia: Rob Reiner
Anno: 1987
Interpreti: Cary Elwes, Robin Wright Penn, Mandy Patinkin, Chris Sarandon, Christopher Guest, Wallace Shawn, Andrè The Giant, Peter Falk, Fred Savage

lunedì 24 marzo 2008

I padroni della notte

Sette anni dopo “The Yards” il trio Gray - Phoenix - Wahlbergh si ritrova.



I registi americani sembrano essersi messi d’accordo: nella stagione 2007/2008 quasi tutte le pellicole targate U.S.A hanno come protagonista principale la famiglia. A cominciare da quella depressa di “La famiglia Savage” di Tamara Jenkins e da quella da cui scappa il protagonista di “Into the wild” di Penn, passando ai fratelli omicidi protagonisti di “Sogni e delitti” di Woody Allen e a quelli diabolici di “Onora il padre e la madre” di Lumet, per finire con quella distrutta del barbiere “Sweeney Todd” di Burton e quella fasulla del “Petroliere” di Anderson, tutti hanno voluto analizzare la cellula fondamentale della società.
Anche in “I padroni della notte” la storia, ambientata negli anni ottanta, è incentrata su una famiglia particolare: Robert e Joseph sono fratelli, ma non potrebbero essere più diversi.

Joaquin Phoenix

Joseph Grusinsky (Mark Wahlberg) è un poliziotto, come suo padre, che lotta costantemente contro i narcotrafficanti dei quartieri caldi di New York come Queens e Brooklyn.
Robert (Joaquin Phoenix), che si fa chiamare Bobby Green perchè non vuole che nel suo ambiente si sappia che proviene da un’intera famiglia di sbirri, gestisce un club alla moda a Brooklyn, dove i proprietari russi spacciano la droga di nascosto, e se la spassa a ritmo di musica disco, droga, alcool e sesso con la sua bellissima e appariscente fidanzata portoricana Amada (Eva Mendes).
Quando il rigoroso e severo padre Albert (Robert Duvall), nonché capo della polizia, chiede l’aiuto di Bobby per incastrare i mafiosi russi che smerciano droga nel suo locale, quest’ultimo, un po’ per affermare la sua autonomia, un po’ per sfida, si rifiuta. A causa di questa sua scelta, Joseph subisce un tremendo attentato da cui si salva per miracolo.

Mark Wahlberg

In preda ad atroci rimorsi, Bobby decide di cambiare vita e di aiutare il padre a vendicare il fratello: accetta di fare da talpa per la polizia, con tutti i rischi che questo comporta.
Seguono i soliti microfoni nascosti nei posti più impensabili, gli spacciatori cattivi che più cattivi non si può, le pistole, le sparatorie, gli spostamenti sotto copertura, le crisi con la fidanzata che non regge lo stress e tanto orgoglio e onore virile dei due fratelli che finalmente vanno d’accordo sotto l’autorevole guida paterna.
Alla fine però il morto ci scappa.
Gray per il suo terzo lungometraggio non cambia i temi: ancora criminali, ancora i bassifondi di New York, ancora famiglie in tensione. E, come è già accaduto per “The Departed” e “American Gangster”, tutto sa di già visto, già fatto, già detto.
In America ormai i film del genere gangster-movie sono come le commedie dolci-amare di tradimenti coniugali e trentenni in crisi da noi: ogni tanto se ne fa uno, il prodotto è così così e le idee sempre uguali. Certo gli americani possono contare su registi di talento, grandi mezzi e attori fuoriclasse, ma il risultato è sempre lo stesso: la solita minestra riscaldata.

Robert Duvall

Anche gli attori, che dovevano affrontare tutti personaggi che hanno già interpretato più volte, sembrano essersi adagiati su una recitazione standard: Phoenix fa il solito uomo estremo, vizioso, annebbiato da droghe e alcool, a volte folle, a volte più saggio, Wahlberg fa ancora una volta il poliziotto tutto d’un pezzo, che sembra tanto Capitan America, Eva Mendes si limita a mostrare le sue prorompenti grazie e Duvall è come fossilizzato nella sua maschera granitica di uomo duro ed incorruttibile. Non mancano comunque due sequenze spettacolari e riuscitissime come l’inseguimento sotto la pioggia e quello nel campo di grano, ma Gray, con i mezzi e il grandissimo cast di cui disponeva, poteva fare di più.

Eva Mendes

Ridicola l’analisi psicologica dei personaggi: alla fine tutto si limita alla parabola del figliol prodigo, al fratello perfetto che in realtà avrebbe voluto essere più libero e dissoluto come l’altro, che è sempre stato trattato come la pecora nera, che a sua volta vuole solo essere amato dal padre severo, e al vecchio dogma “il sangue non è acqua, la famiglia è la famiglia”. Ormai, visto che film come “Non è un paese per vecchi” o “Onora il padre e la madre” ci hanno portato molto più in là per tutto ciò che riguarda l’introspezione psicologica dei personaggi e l’analisi della società, non si può avere la pretesa di costruire un grande dramma senza profondi temi di base e una sceneggiatura impeccabile.
Il finale poi è in controtendenza: qui alla fine una speranza c’è, ma risulta forzata, falsa e totalmente fuori posto, al contrario di tutti i film che hanno emozionato in questo ultimo anno in cui il futuro è visto nerissimo.
Insomma grande spettacolo: ma niente di più.

La citazione: "Se sposi una scimmia poi non puoi lamentarti della puzza di banana!"


Voto: ♥♥

Pubblicato su Meltin' Pot.

E’ morto Anthony Minghella il regista di kolossal romantici

Il regista inglese è morto inaspettatamente a 54 anni in un momento di intensa attività.

Anthony Minghella

Dopo la scomparsa di registi che hanno fatto la storia del cinema come Bergmann e Antonioni e la morte prematura di giovani divi come Brad Renfro e Heath Ledger, Hollywood è stata messa nuovamente a dura prova perdendo uno dei suoi re Mida: Anthony Minghella.
Il regista inglese, di origini scozzesi e italiane, si è spento lo scorso 18 marzo durante un’operazione chirurgica, che prevedeva la rimozione di un tumore alla gola, a 54 anni.
Nato il 6 gennaio del 1954 a Ryde, in Gran Bretagna, Minghella frequenta l’Università di Hull dove per un breve periodo fa il professore. Capito che la sua grande passione sono la musica e la scrittura, Minghella comincia a scrivere commedie teatrali, che presto vengono rappresentate.
I riconoscimenti non si fanno attendere e nel 1984 vince il London Theater Critics Award come miglior scrittore emergente di commedie e nel 1986 il premio come Miglior Commedia per la sua opera “Made in Bangkok”.
Presto il mondo del teatro comincia a stargli stretto e così nel 1991 esordisce al cinema con il film “Il fantasma innamorato”, in cui un uomo morto prematuramente (Alan Rickman) torna a far visita alla sua fidanzata da fantasma, finendo per esasperarla. Al 1993 risale la sua seconda pellicola “Mister Wonderful”, in cui un elettricista squattrinato (Matt Dillon), non riuscendo a pagare gli alimenti alla ex moglie, decide di trovare un nuovo marito all’ex compagna, tra i pretendenti c’è anche un professore interpretato dal grande William Hurt.
Queste prime due fatiche di Minghella non accolgono il favore né della critica né del pubblico e il regista sembra destinato a rimanere bloccato nel ruolo di scrittore di commediole leggere e simpatiche ma nulla più.

Ralph Phiennes in "Il paziente inglese"

Ma nel 1996 succede l’incredibile: con il suo terzo film, tratto dal romanzo di Michael Ondaatje, “Il paziente inglese”, Minghella ottiene un successo enorme. Il pubblico si appassiona e si commuove per la tormentata storia del moribondo soldato Laszlo de Almasy (interpretato da Ralph Phiennes) accudito dall’infermiera Hana (Juliette Binoche), al punto che perfino il presidente degli Stati Uniti allora in carica, Bill Clinton, dichiara che è il miglior film dell’anno e perfino l’Academy Award non rimane insensibile alla pellicola dandogli ben dodici nomination. Il film vince ben nove Oscar: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice Non Protagonista per la Binoche, Fotografia, Scenografia, Costumi, Montaggio, Colonna Sonora e Sonoro. Una vera pioggia d’oro ricopre il regista inglese che a questo punto ha carta bianca per qualsiasi progetto.

Anthony Minghella con l'Oscar per la Miglior Regia nel 1996

Il film successivo, del 1999, è l’inquietante “Il talento di Mister Ripley”, rifacimento di “Delitto in pieno sole” e tratto dal romanzo di Patricia Highsmith, che vanta un cast di giovani attori che di lì a poco diventeranno grandissime star: Jude Law, Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Cate Blanchett, Philip Seymour Hoffman. Essendo ambientato in Italia, il film ha permesso ad alcuni nostri attori, come Fiorello, in una fantastica interpretazione di “Tu vuò fa l’americano”, Stefania Rocca e Sergio Rubini, di farsi conoscere a Hollywood. L’opera destabilizza critica e pubblico: l’efferatezza dei delitti di Ripley e l’ambiguità sessuale che pervade tutta la pellicola non convincono appieno gli spettatori.

Jude Law e Matt Damon in "Il talento di Mr. Ripley"

L’anno successivo Minghella mescola il teatro con il cinema, girando il cortometraggio di 16 minuti “Play”, tratto da un lavoro di Beckett, e come interpreti sceglie Alan Rickman e Kristin Scott Thomas. Per il film successivo bisogna aspettare “Ritorno a Cold Moutain” del 2003: altro kolossal, altro dramma romantico sullo sfondo di una guerra e di nuovo Jude Law come protagonista. Ad affiancare il bell’attore inglese questa volta ci sono Nicole Kidman e Renee Zelwegger e il film riporta Minghella ai fasti del “Paziente Inglese” dato che ottiene sette nomination agli Oscar. Questa volta però l’Academy concede all’opera del regista una sola statuetta vinta dalla Zelwegger come Miglior Attrice Non Protagonista.

Nicole Kidman e Jude Law in "Ritorno a Cold Mountain"

Nel 2006 realizza “Complicità e sospetti”, da lui anche scritto, con protagonisti i suoi attori feticcio Jude Law e Juliette Binoche, ambientato in una Londra fredda e malinconica, ma il film viene stroncato sia dalla critica che dal pubblico.
Nel 2007 prende parte come attore a “Espiazione”: in un cameo di lusso, il regista interpreta il giornalista che intervista Briony Tallis, alias Vanessa Redgrave, alla fine del film.
In quest’ultimo anno stava lavorando contemporaneamente a tre progetti: il film “The N. 1 Ladies detective agency”, singolare storia della prima agenzia investigativa fondata da donne in Botswana, “New York, I love you”, film a episodi per celebrare la Grande Mela, e “The Ninth Life of Louis Drax” che stava ancora scrivendo, annunciato come il seguito di “Complicità e sospetti”.

Jude Law e Juliette Binoche in "Complicità e sospetti"

Minghella ha avuto una carriera breve ma letteralmente ricoperta d’oro, forse troppo, visto che nei suoi film i personaggi e le situazioni sono spesso stereotipati, che la sua regia è troppo di maniera e che il regista aveva l’ossessione del bello a tutti costi: persone, oggetti, luoghi, tutto era sempre perfetto e bellissimo, situazione ben lontana dalla realtà e per nulla affascinante o interessante.
Nonostante questo è stato un regista in grado di far emozionare e sognare milioni di persone con storie d’amore impossibili e romantiche.
Chissà forse col tempo avrebbe dimostrato di poter andare oltre la superficie e scavare più a fondo nell’animo dei suoi personaggi, ma il destino ha voluto che di lui rimanesse l’immagine di un esteta raffinato, ma sostanzialmente vuoto.

Pubblicato su Meltin' Pot.

domenica 23 marzo 2008

Non è un paese per vecchi

L'ultima fatica dei Coen è un capolavoro metafisico e simbolico su quello che ci aspetta.



“Qual è la cosa più grossa che hai perso a testa o croce?”.
Se un uomo con un’espressione indecifrabile e un ridicolo taglio di capelli da paggio vi ponesse questa domanda, che cosa rispondereste?
Ripercorrereste tutta la vostra vita, le vostre esperienze, le persone e i luoghi che avete conosciuto e forse non sapreste che cosa rispondere.
Vi sembrerebbe strana la domanda e ancor più strano chi ve la fa.
Soprattutto se si trascina dietro una bombola del gas.
Beh quello strano signore sarebbe meglio non incontrarlo mai, perché è uno dei personaggi più maledetti, inquietanti, malvagi e simbolici della storia del cinema: Anton Chigurth (Javier Bardem).

Javier Bardem

Chigurt è sulle tracce di Llwelyn Moss (Josh Brolin), che ha trovato per caso una valigetta contenente due milioni di dollari sulla scena di uno scambio tra narcotrafficanti finito male.
Chigurt vuole assolutamente quella valigetta e Llwelyn non vuole assolutamente restituirla.
Abbandonata la fidanzata Carla Jean (Kelly MacDonald), Llwelyn scappa per tutto il Texas cercando di sfuggire alle grinfie di questo misterioso killer che sa sorprendentemente come trovarlo ogni volta. Chigurth durante l’inseguimento lascia una scia di cadaveri e sangue dietro di sé, uccidendo la gente con una bombola a pressione e riuscendo a sopravvivere a qualsiasi imprevisto.

Josh Brolin

Nel frattempo la legge non sta a guardare: lo sceriffo Bell (Tommy Lee Jones) si mette sulle tracce di Llwelyn e del suo misterioso inseguitore. Anche un collega di Chigurth, Carson Wells (Woody Harrelson) vuole trovare la valigetta e il killer, ma trova prima Llwelyn.
Sullo sfondo di motel da quattro soldi, paesaggi desolati e bellissimi, frontiera messicana e locali per camionisti, assistiamo a questi inseguimenti paralleli che porteranno inevitabilmente ad esiti tragici.
I Coen hanno realizzato un film che definire capolavoro è riduttivo: quasi metafisico, intriso di lirismo e violenza, sangue e riflessione.

Tommy Lee Jones

Bellissimi i personaggi: Llwelyn è l’uomo medio, avido, ottuso, ignorante, che non pensa due volte a prendere i soldi e ad abbandonare la fidanzata, senza rendersi conto che quei soldi invece di cambiargli la vita gliela distruggeranno; Bell è la vecchia legge, che arriva dove può ma che di fronte a tanta efferatezza inspiegabile se ne lava le mani per non rischiare e lascia che gli eventi facciano il suo corso senza intervenire, anche perché non riesce più a capire come gira il mondo; Carla Jean è l’unica che si rende conto che non c’è scelta di fronte Chigurth, quando questo le propone il gioco della moneta, lei sa che lui ha già scelto, ed è la sola che ha il coraggio di andare incontro al suo destino con dignità; infine Chigurth, più che un’incarnazione del destino è il simbolo del male, un male che, come una marea oscura, inonda e travolge tutto.

Kelly MacDonald

Il destino dell’umanità è incerto quanto cupo: nemmeno i giovani rappresentano una speranza, perché verso la fine del film i due ragazzini che danno la camicia al killer cominciano a litigare per soldi. La cosa angosciante che trapela dal film dei Coen non è tanto l’avidità e il desiderio di denaro che pervade l’umanità, quanto questa smania di fuggire dagli altri, di sottometterli, quest’aggressività dirompente e inspiegabile che è in tutti e che è pronta ad esplodere in ogni momento: il male per il male, a cui non c’è modo di sfuggire.
Bellissimi alcuni dettagli: Chigurth che si guarda gli stivali dopo essere stato in casa di Carla Jean e fa capire cosa è successo, il dialogo tra lo sceriffo e il suo collega, che si lamenta di tutti "questi teppistelli che si tingono i capelli di verde e si fanno i piercing", come se il mondo andasse in malora per questo, e Bell che con indifferenza si allontana ad un passo dalla verità.
Fantastici gli attori: Tommy Lee Jones, sempre più duro e dolente, Brolin, che ha dimostrato di essere molto di più di un Goonies, rivelando doti di grande interprete, e su tutti l’immenso, straordinario Bardem, che ci ha regalato uno dei personaggi più belli della storia del cinema. La sua interpretazione va oltre ogni definizione: semplicemente è il male puro che cammina in mezzo a noi. Meritatissimo il suo Oscar.
I Coen hanno realizzato un film che è una vera e propria pietra miliare: confrontarsi con questa pellicola sarà difficilissimo.
Da vedere e rivedere una seconda volta per apprezzare al meglio i dialoghi straordinari.

La citazione: "Quando si comincia a non dire più grazie e per favore è l’inizio della fine".

Voto: ♥♥


venerdì 21 marzo 2008

Citazione cinematografica n. 7


"Dignità. Sempre dignità!"

da: Cantando sotto la pioggia


Gene Kelly



Original: Dignity. Always dignity!


Titolo originale: Singin' in the rain
Regia: Stanley Donen e Gene Kelly
Anno: 1952
Interpreti: Gene Kelly, Donald O'Connor, Debbie Reynolds, Jean Hagen, Cyd Charisse

lunedì 17 marzo 2008

Shine a Light

Martin Scorsese celebra con un documentario i leggendari Rolling Stones.




I Rolling Stones devono avere più di una semplice simpatia per il diavolo.
Hanno sicuramente stretto un patto con Satana: non si spiega altrimenti la loro incredibile longevità artistica e di performers dal vivo.
Basta assistere ad una loro esibizione per rendersene conto: Mick Jagger, all’età di sessantacinque anni, sul palco è un demonio scatenato, uno spiritello dirompente ed energico, che esegue passi di danza a ritmo frenetico, donando al pubblico adrenalina pura.
Che dire poi del mefistofelico Keith Richards: il sorriso più ambiguo e irresistibile della storia del rock! Un chitarrista leggendario, un pirata della musica, tanto da diventare un’icona citata anche nel film “Pirati dei Caraibi” con protagonista Johnny Depp (che gli ha interamente copiato il look).

I Rolling Stones e Martin Scorsese

Per celebrare questa band, che ha fatto la storia del rock, è stato chiamato in causa un regista del calibro di Martin Scorsese, che di musica se ne intende e che ha realizzato numerosi film e documentari su personaggi del mondo delle sette note: “No Direction Home: Bob Dylan”, “Feel like going home” sulla storia del blues, “L’ultimo valzer” e l’indimenticabile “New York, New York”. Dal canto suo, Scorsese ha voluto con sé una troupe veramente d’eccezione: il direttore della fotografia Robert Ridcharson, due volte premio Oscar, che ha guidato una vera e propria squadra di direttori della fotografia di fama mondiale tra cui i premi Oscar John Toll e Andrew Lesnie e i candidati all’Academy Award Stuart Dryburgh, Robert Elswith e Ellen Kuras. Per il montaggio è stato scelto David Tedeschi, che con Scorsese aveva già lavorato al documentario su Bob Dylan.
La pellicola è divisa in due parti: un’introduzione racconta di come Scorsese abbia letteralmente inseguito la band durante il tour negli States, abbia definito i dettagli per le riprese ed elemosinato la scaletta definitiva del concerto che fino alla fine non arriva mai.
Irresistibile questa prima parte in cui il regista ha potuto seguire i Rolling Stones nei camerini: la loro simpatia, la follia, l’energia sono così dirompenti da contagiare Scorsese, che per tutte le riprese non fa che ridere e lo spettatore con lui.

Keith Richards e Martin Scorsese

Introdotti così i personaggi, si passa alla seconda parte: il concerto tenutosi al Beacon Theatre di New York nell’autunno del 2006. Prima che lo show abbia inizio, come in una processione, vediamo personaggi importantissimi, tra cui la famiglia Clinton al completo, che va ad omaggiare questa sorta di dei pagani: incredibile come ogni componente della band si presenti a tutti come se nessuno sapesse chi sono!
Finiti i preparativi, giunto tutto il pubblico in sala, si accendono le luci e comincia lo spettacolo: con un’energica “Jumpin’ Jack Flash” il pubblico può subito entrare nello spirito vitale, scanzonato e senza tempo della band. I quattro inglesi, nei loro vestiti luccicanti, ipnotizzano il pubblico, lo esaltano e gli donano un’enorme voglia di vivere e di divertirsi.

The Rolling Stones

Tra camaleontici cambi di abiti Mick Jagger canta con la voce graffiante di sempre, balla come un indemoniato e scherza con gli altri componenti della band: un Keith Richards, che entra in estasi mistica ad ogni assolo di chitarra e che tra un pezzo e l’altro trova il tempo di fumare una sigaretta e gettare il plettro al pubblico, un Charlie Watts, impassibile come sempre ma che all’improvviso fa una smorfia direttamente in camera, e un Ron Wood, che insieme a Richards fa dei duetti di chitarra memorabili. Ad arricchire il concerto contribuiscono tre fantastici guest artists: Jack White dei White Stripes, Buddy Guy e una scatenata Christina Aguilera. In più Scorsese ha intervallato le canzoni con spezzoni di vecchie interviste della band, tra cui una particolarmente significativa: un Jagger poco più che ventenne dice al giornalista che spera di poter continuare a suonare almeno per altri tre o quattro anni.


Christina Aguilera e Mick Jagger

Le quasi due ore di concerto sono una vera e propria scarica di elettricità: impossibile non canticchiare e muoversi, fino al pezzo conclusivo, l’immortale “I can’t get no satisfaction”.
Se nei primi piani non si vedessero le profonde rughe che segnano i visi di questi arzilli giovanotti ultrasessantenni, nessuno crederebbe che questa band esiste da più di quarant’anni: in un certo senso si potrebbe dire che la loro musica è una fonte meravigliosa in grado di dare l’eterna giovinezza.
In fondo è solo rock and roll: ma che rock and roll ragazzi!

I Rolling Stones alla fine del concerto

La citazione: "Cool yeah?!"

Voto:

Uscita italiana:
11 aprile 2008

Pubblicata su Meltin' Pot.


venerdì 14 marzo 2008

Citazione cinematografica n. 6


"I datteri fanno male!"


da: Indiana Jones e i predatori dell'Arca perduta



Harrison Ford e John Rhys - Davies

Original: Bad dates!

Titolo originale: Raiders of the Lost Ark
Regia: Steven Spielberg
Anno: 1981
Interpreti: Harrison Ford, Karen Allen, John Rhys-Davies, Paul Freeman, Ronald Lacey

mercoledì 12 marzo 2008

Onora il padre e la madre

Quanto è importante la famiglia?




Quest’anno i registi sembrano essersi messi d’accordo: hanno tutti deciso di demolire la famiglia.
A cominciare dai fratelli omicidi di “Sogni e delitti” di Woody Allen, passando per lo Sweeney Todd di Burton e “Il petroliere” di Anderson fino a “Onora il padre e la madre” dell’ottuagenario Lumet.
I cattivi la fanno da padroni in questa stagione cinematografica.
A dir la verità cattivi è riduttivo, è più appropriato dire diabolici, mefistofelici, discendenza diretta del Faust di Goethe.
Uomini malvagi al punto da sacrificare il bene più caro che ognuno ha: la famiglia.
Vista da sempre come nido in cui rifugiarsi, come fonte d’affetto incondizionato e di legame indissolubile, ora sembra essere un peso, anzi no, un insopportabile e soffocante fardello di cui liberarsi e, cosa ancora più tremenda, per cui provare un profondo odio carico di rancore.

Philip Seymour Hoffman e Hethan Howke

I fratelli Andy (Philip Seymour Hoffman) e Hank (Ethan Hawke) non potrebbero essere più diversi: il primo non è certo attraente, ma lavorando sodo ha saputo conquistarsi una buona posizione sociale e ha sposato una donna bellissima, Gina (Marisa Tomei), il secondo invece, molto più bello, manca totalmente di forza di volontà, ha divorziato dalla moglie e non riesce a pagare gli alimenti per la sua adorata figlioletta. Una cosa però li unisce: il disperato bisogno di soldi.
Hank ha debiti su debiti che non sa come pagare, Andy, dipendente dalla droga, per pagare il suo costoso vizio ha sottratto denaro dalle casse della sua società e deve immediatamente porvi rimedio.
Per risolvere la situazione Andy architetta un piano: rapinare una gioielleria a conduzione familiare coperta da assicurazione e situata in provincia. Il gioco è facilissimo: i fratelli conoscono gli orari di lavoro e le abitudini dei proprietari, come disattivare l’allarme e aprire la cassaforte. Infatti la gioielleria in questione è quella dei loro genitori.
Inizialmente contrario, Hank alla fine si fa convincere da Andy: è tutto così facile e per giunta l’assicurazione rimborserà mamma e papà.
Hank allora, con l’aiuto di un complice, rapina la gioielleria.
Ma la tragedia è in agguato: nel giro di pochi minuti sia il complice che la madre di Hank rimangono uccisi. I fratelli cercheranno di mantenere la calma, ma il rimorso sarà difficile da contenere, soprattutto di fronte all’immenso dolore del padre Charles (Albert Finney).

Albert Finney

Sarà l’inizio di una spirale di inaudita violenza, in cui ogni personaggio si mostrerà per quello che è veramente. E la verità sarà terribile.
Sidney Lumet, all’età di ottantaquattro anni, ha realizzato un film inquietante e bellissimo: il racconto, spezzettato in tanti segmenti alternati in senso non cronologico, che raccontano la storia dal punto di vista dei vari personaggi, è un sincopato avvicendarsi di delitti terribili e mostruosi visto che la vittima è la famiglia. Per i soldi un figlio vende sua madre, è pronto a uccidere il fratello, a sacrificare la moglie, a mentire al padre.
Anche qui il futuro è nerissimo: le persone pensano soltanto al denaro, che però non è fonte di felicità e orgoglio, ma acuisce il senso di estraneità e alienazione che ognuno di noi sente, chi più chi meno, amplificando i difetti che il singolo ha. Così Hank l’inetto diventa un criminale meschino e piagnucolone, che si porta a letto la cognata, Gina, moglie annoiata e delusa da un marito che non la appaga mai sessualmente, non si fa scrupolo di abbandonare il consorte mentre sta perdendo tutto, Charles è ossessionato dalla vendetta e Andy, arrivista drogato e subdolo, capace di architettare un piano ai danni dei genitori e di sfruttare il fratello per metterlo in atto, che ha sposato una donna bella e appariscente per nascondere la sua omosessualità, è il malefico privo di sentimenti umani, spinto solo dall’avidità e dal desiderio di manovrare gli altri, che, non amando nessuno, non prova pietà per nessuno e che si fa qualche scrupolo solo quando deve proteggere se stesso.

Marisa Tomei

Grande prova per tutto il cast: bravo Hawke che sveste i panni del bello arrogante e dà vita a un personaggio fragile e ingenuo, ottimo Finney che sa passare dal dolore all’ossessione fino all’odio più profondo, brava la Tomei, che è anche in ottima forma fisica, e strepitoso Hoffman: uno dei più grandi interpreti del cinema mondiale, luciferino e freddo, rabbioso, anaffettivo, vero cuore e anima nera del film, recita uno dei più bei monologhi che si siano visti da anni. Andy, seduto nell’appartamento del gay che gli dà l’eroina, fa un discorso su come la vita non corrisponda ad una logica e lineare equazione matematica, ma di come sia scomposta in varie parti, vari aspetti, segmenti che riuniti insieme non fanno di lui un io intero. Da applausi.
La regia di Lumet è perfetta: spesso in soggettiva, frammentata, con i vari livelli temporali mescolati, anticipati e ripresentati, che rispecchiano il concetto espresso dal personaggio di Andy.
Non c’è possibilità di redenzione, non c’è perdono, non c’è speranza.
Uno dei film più belli dell’anno.
Da vedere assolutamente.

La citazione:
"E' come se tutti questi segmenti della mia vita non facessero un me intero".

Voto:

Uscita italiana: 14 marzo 2008

domenica 9 marzo 2008

La Zona

Homo homini lupus: il regista messicano Rodrigo Plà confeziona un thriller che offre numerosi spunti di riflessione.




La legge è uguale per tutti.
O quasi.
Nel mezzo di Città del Messico questa contraddizione è rappresentata dalla “Zona”: un ristretto gruppo di cittadini abbienti e meglio istruiti si isola dalla moltitudine di delinquenti poverissimi e pronti a tutto per un pezzo di pane, recintando le proprie lussuose ville con piscina con alte mura sorvegliate da telecamere a circuito chiuso.
Niente manca nella Zona: c’è la scuola, un ambulatorio, perfino un servizio di vigilanza.
Apparentemente un giardino delle meraviglie lontano dallo squallore della povertà.


Ma un giorno come tanti, mentre imperversa un temporale, a causa di un blackout, le vite degli abitanti della Zona sono costrette a intrecciarsi con quelle degli abitanti più sfortunati: tre ragazzini riescono a penetrare nell’area, a introdursi in una villa per svaligiarla ed uccidono una vecchia signora.
La cameriera dell’anziana donna riesce ad avvertire le guardie, che, senza se e senza ma, uccidono due dei tre ragazzi. Solo il terzo, Miguel, riesce a fuggire, ma ormai è intrappolato all’interno della Zona.
Gli abitanti decidono di non ricorrere alla polizia e di cercare il fuggitivo da soli per poi processarlo. Questo giorno tumultuoso coincide con il sedicesimo compleanno di Alejandro (Daniel Tovar), che dovrà prendere un’importante decisione.


Il messicano Rodrigo Plà, al suo terzo lungometraggio, porta sullo schermo il racconto di Laura Santullo, anche sceneggiatrice, e ci regala una pellicola interessante, una sorta di thriller psico-sociologico. La trama, non molto originale a dir la verità, affronta temi attualissimi e rilevanti: l’enorme divario che c’è tra le classi sociali più abbienti e quelle che sono letteralmente in miseria si accentua sempre più, soprattutto in paesi come il Messico, con conseguenze disastrose: è naturale che chi non ha nulla da perdere sia pronto a tutto pur di procurarsi qualcosa per sopravvivere ed è anche comprensibile che l’odio nei confronti dei ricchi sia aumentato dall’arroganza di questi ultimi nel cercare di proteggere sempre più i propri privilegi. Ma sarà poi vero che chi ha più studiato e si è costruito un solido futuro è più civile e soprattutto più morale? Nel momento in cui i privilegiati vedono minacciata la loro tranquillità, non dimostrano di essere migliori dei poveracci, anzi.
L’opera è una critica alla società moderna, che permette disparità sociali così marcate, sempre più incline a demonizzare lo straniero, o comunque il diverso, e a fomentare la sete di “giustizia fatta in casa”.
Interessante il fatto che molti degli abitanti della Zona siano laureati: dovrebbero essere più consapevoli, più aperti mentalmente o quantomeno più a conoscenza delle leggi, invece, di fronte al pericolo, si dimostrano in realtà primitivi quanto i diseredati, con cui sono pronti a sbranarsi senza pietà.


Il film è sostanzialmente buono, anche se il finale poteva essere costruito meglio e i personaggi più approfonditi e meno stereotipati: ci sono i delinquenti da due soldi, il poliziotto corrotto e quello con un passato oscuro, il padre di famiglia che non sa cosa fare e la terribile folla inferocita che inghiotte con rabbia tutto quello che le capita a tiro.
Nonostante qualche imperfezione, il ritmo è buono così come tutto il cast.
Il film è stato presentato allo scorso Festival di Venezia dove ha vinto il premio Leone del futuro - Premio Opera Prima “Luigi De Laurentiis”.
In Italia verrà distribuito dalla Sacher Distribuzione di Nanni Moretti e dovrebbe uscire il 4 aprile.


La citazione: "Allora, chi vota per andarlo a cercare?"


Voto: ♥♥

Uscita italiana: 4 aprile 2008

Pubblicato su Meltin' Pot.

venerdì 7 marzo 2008

Citazione cinematografica n. 5


"Credo nella verità, bellezza, libertà, ma credo soprattutto nell'amore!"


da: Moulin Rouge!


Nicole Kidman e Ewan McGregor


Original: I believe in Truth, Beauty, Freedom, but above all things I believe in Love!

Titolo Originale: Moulin Rouge!
Regia: Baz Luhrmann
Anno: 2001
Interpreti: Nicole Kidman, Ewan McGregor, Richard Roxburgh, John Leguizamo, Jim Broadbent

giovedì 6 marzo 2008

Caos Calmo

Antonello Grimaldi porta sullo schermo il romanzo di Sandro Veronesi.




Il libro di Sandro Veronesi, uscito nel 2005, ha vinto il Premio Strega e conquistato un enorme pubblico di lettori.
La trasposizione cinematografica di Antonello Grimaldi vanta la presenza di Nanni Moretti sia come sceneggiatore che come protagonista e un grande cast. Ma non basta.
Infatti per questo film sarebbe meglio parlare non di caos calmo ma di “caos piatto”.
La storia è quella di Pietro Paladini (Nanni Moretti), manager di successo, in vacanza al mare con tutta la famiglia. Mentre Pietro sta giocando a racchettoni sulla spiaggia con il fratello Carlo (Alessandro Gassman), una donna rischia di affogare e i due si tuffano in acqua per salvarla.
Proprio mentre Pietro sta salvando una sconosciuta, sua moglie Lara muore sul colpo davanti alla figlia Claudia (Blu Di Martino).
Da quel momento qualcosa si incrina in Pietro o meglio si ferma: non provando più interesse per il mondo che lo circonda, il neovedovo decide di aspettare tutti i giorni la figlia fuori dalla sua scuola, sedendo su una panchina.
All’inizio tutto sembra normale, ma con il passare dei giorni le persone che per lavoro o per domicilio si trovano a passare lì notano incuriositi quest'uomo che aspetta tutto il tempo su una panchina. Il manager si farà amici prima i proprietari del chiosco di fronte alla scuola, poi un ragazzo down e sua madre, perfino un anziano signore, che abita in uno dei palazzi vicino alla scuola, che lo invita a pranzo, e infine una misteriosa ragazza (Kasia Smutniak), che porta a spasso il cane tutti i giorni alla stessa ora, finirà per notarlo. Presto anche gli amici di Pietro cominciano a preoccuparsi e uno ad uno vanno a trovarlo: dapprima il fratello Carlo, re dei jeans alla moda, famoso e latin lover, poi la cognata Marta (Valeria Golino) maniaco depressiva nevrotica e ansiosa, poi i suoi colleghi di lavoro che sono molto impegnati a mandare avanti una fusione della società, poi anche l’addetto del personale Samuele (Silvio Orlando) si sfoga con lui e perfino la sconosciuta che ha salvato (Isabella Ferrari) lo raggiunge alla panchina.
Tutti vogliono confortare Pietro ma la verità è che lui è tranquillo, sono loro piuttosto a sfogarsi con lui e a trarre giovamento dalla sua apparente serenità.
Dopo mesi passati lì, il manager riacquisterà la voglia di vivere, soprattutto grazie a sua figlia.

Nanni Moretti

Il film si basa tutto sull’interpretazione sorprendente e intensa di un Nanni Moretti mai così vero e bravo: perfetto quando non parla, quando urla, quando piange, quando sorride alla figlia. Veramente un’ ottima prova, come quella di un Gassman in stato di grazia, coatto e ironico, perfetta spalla del grande Nanni. Bravi anche Silvio Orlando e la sempre più femme fatale Isabella Ferrari. L’unica a non convincere è Valeria Golino: sarà il personaggio, ma la sua recitazione è troppo sopra le righe.
Fantastico il cameo di Polanski: non dice una parola ma catalizza totalmente l’attenzione.
Non basta però un nome noto del cinema italiano e un grande cast per fare un buon film: la regia di Grimaldi, regista televisivo, è piatta, sciatta, scontatissima, a volte sembra che non sappia quasi dove piazzare la macchina da presa. La storia è resa male: un pò troppo lenta all'inizio, frettoloso e stiracchiato il finale. Inoltre anche la sceneggiatura fa acqua: la relazione tra la sconosciuta e Pietro non si capisce bene come nasca e si risolve subito, come se fosse un pretesto per mostrare la famosa scena erotica e far parlare del film.

Nanni Moretti e Alessandro Gassman

Per quest'ultimo aspetto il film si presenta male in partenza: la polemica nata sulla scena di sesso tra Moretti e la Ferrari ha distolto l’attenzione dal resto della pellicola e comunque non si capisce perché ci sia stato tanto clamore, al cinema si è visto di molto peggio.
Forse la Chiesa non ha approvato perché il sesso qui è visto come un atto liberatorio, di puro piacere fisico, cosa che sicuramente non è andata giù a Ruini & Co.
Comunque, purtroppo per Moretti e compagni, i tedeschi del Festival di Berlino hanno ragione: questo film non vale molto, così come quasi tutto il cinema italiano degli ultimi anni.
Non ci sono più idee, non ci sono grandi registi (tranne rare eccezioni come Crialese e Sorrentino): è il cinema italiano a trovarsi in un caos calmo, in una sorta di stato comatoso.
Peccato perché poteva essere l’occasione di dare una svolta all’andazzo generale della cinematografia italiana.


La citazione:
"Non sto seduto qui tutto il giorno...mi muovo..."


Voto: ♥♥

Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street

L’inossidabile coppia Burton-Depp porta sullo schermo il musical di Stephen Sondheim. E stavolta è una vera pioggia di sangue!




Sangue.
Tanto, tantissimo sangue.
Fin dai titoli di testa, bellissimi e in pieno stile burtoniano, si capisce che “Sweeney Todd” non ha nulla delle favole dark a cui Burton ci ha abituato.
Questa volta l’immaginifico regista ci catapulta in un vero e proprio incubo: cupo, grumoso e fetido.
Il sangue pastoso, denso, quasi una tempera, che vediamo piovere dal cielo all’inizio del film, sarà l’unico colore della pellicola: per il resto il regista ha usato esclusivamente toni che vanno dal nero al grigio. Ma veniamo alla storia.
Sweeney Todd (Johnny Depp) è un uomo pensieroso.
E’ un uomo cupo.
E’ un uomo con un tremendo passato.
E’ soprattutto un uomo assetato di vendetta.
Ed è anche un barbiere, che una volta si chiamava Benjamin Barker.
Fuggito dalla prigione in cui era stato ingiustamente rinchiuso per ben quindici anni, Barker cambia identità e torna a Londra, pronto a punire chi gli ha distrutto la vita.
Giunto nella sua vecchia casa e rimpossessatosi dei suoi rasoi d’argento, progetta di uccidere il giudice Turpin (Alan Rickman) che, innamorato della sua bella e virtuosa moglie, lo ha ingiustamente condannato, separandolo dalla sposa e dalla figlia neonata, Johanna.
Al piano inferiore della casa di Todd c’è il negozio di Mrs. Lovett (Helena Bonham Carter), che cucina i “peggiori pasticci di carne di tutta Londra” e che offre il suo aiuto a Todd. Da lei apprendiamo che, dopo l’arresto, la moglie di Sweeney è impazzita e si è suicidata e che il giudice ha adottato Johanna e da allora l’ha tenuta rinchiusa nella sua casa, senza che nessuno la veda.
I due escogitano un diabolico piano: nell’attesa che il giudice venga al negozio di Todd, il barbiere taglierà la gola a tutti i malcapitati clienti, che poi Mrs. Lovett farà sparire usandoli come ingrediente principale delle sue torte di carne.
La trama in sé non è originalissima, perfino l’uso dei cadaveri a scopo alimentare si era già visto (ad esempio in “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”): il fascino di questo film sta nel grande stile personale del regista.


Johnny Depp



Solo Tim Burton poteva fare un film di vendetta, omicidi e violenza che è anche un musical!
Riprendendo l’opera teatrale di Stephen Sondheim, Burton ha realizzato un’opera unica nel suo genere: un horror-musical, un incubo patinato, una macabra danza gotica.
Anche qui, la famiglia e i rapporti umani escono, questa volta letteralmente, a pezzi: abbiamo un uomo, che una volta era buono e che amava la sua famiglia, trasformato in un mostro dalla cattiveria altrui, un uomo che è stato talmente ferito da non conoscere più il confine tra giusto e sbagliato.
Sweeney sembra essere l’evoluzione di Edward Mani di forbice: ma mentre Edward faceva del male agli altri involontariamente perché le sue lame gli erano state imposte, Todd sceglie volutamente di impugnare i rasoi e di seminare morte. L’escluso decide di reagire facendosi giustizia da solo e lo fa con ancora più cattiveria dei suoi aguzzini. Anche nella capigliatura Todd ricorda Edward, ma, a dimostrazione che il tempo è passato, ha una ciocca di capelli bianchi.
Accanto al protagonista non troviamo personaggi positivi: Mrs. Lovett incarna tutte le meschinità e le avidità della gente comune, pur di avere il proprio vantaggio è pronta a sacrificare qualsiasi cosa e a compiere i crimini più efferati. Il giudice Turpin è la classe potente che opprime i più deboli e si fregia di un’autorità che in realtà nasconde perversioni terribili e corrotte. Abbiamo Beadle Bamford (Timothy Spall), il servo, il viscido, pronto a salire sul carrozzone del vincente di turno, che calpesta gli altri con gusto. Soltanto Johanna e Anthony, il ragazzo che si innamora di lei, sembrano dare una speranza, ma solo perché ancora non hanno vissuto abbastanza e non sono entrati in contatto con le altre persone: presto dovranno sporcarsi anche loro, proprio come il piccolo Toby, l’aiutante di Mrs. Lovett, che impara subito ad essere adulto.


Johnny Depp e Helena Bonham Carter


Il film è una metafora nera, nerissima, dei giorni nostri: tempi mostruosi, tempi da lupi, tempi in cui è impossibile essere buoni e innocenti perché il resto del mondo non te lo permette.
La famiglia, l’amore, l’onestà, sono solo illusioni: l’uomo accanto a te, la donna che dice di amarti, le persone che dovrebbero essere integerrime e amministrare la giustizia sono pronti a schiacciarti, a fare carne da macello di te. L’unica soluzione è o farsi schiacciare, o farsi giustizia da soli.
Sweeney sceglie la seconda opzione.
Ma la vendetta è un’arma pericolosa: il cuore di Todd si è talmente indurito da non riuscire a pensare ad altro, da non ricordare più nemmeno le cose e le persone che lo rendevano felice.
La vita, a modo suo, pareggerà i conti.
Burton ha confezionato un film personalissimo, cupo, malato, macabro, perverso, affascinante e visionario, ha saputo mescolare le musiche allegre con immagini terribili, splatter e cruente, creando un contrasto a volte disturbante.
Londra è resa livida e tetra, grazie alla bellissima fotografia di Dariusz Wolski.
Nota di merito va anche alle stupende scenografie e ai costumi (dei nostri Dante Ferretti e Francesca Schiavone), premiati con l’Oscar.
Inutile parlare di Depp: straordinario come e più del solito, abbandonata la dolce malinconia di Edward e la follia allegra di Willy Wonka, qui assume un’espressione truce, malata e senza pietà, in più canta in maniera convincente, con una voce roca, intensa e sensuale. Depp poi è l’unico attore che si inventa una camminata diversa per ogni nuovo personaggio. Fantastico!
Ottima anche la Bonham Carter, perfetta nel ruolo della perfida Mrs. Lovett a modo suo innamorata di Todd, ma comunque sempre pronta all’infanticidio.
Stupendo il pezzo in cui Todd e la Lovett progettano di cucinare tutti gli uomini della città e veramente psicopatico, bellissimo e perfino ironico il trip della Lovett che si immagina il suo futuro con Todd: un capolavoro in cui c’è tutto Burton.

Alan Rickman


L’unica nota dolente del film, è proprio il caso di dirlo, sono le canzoni, non esattamente memorabili. Ma, in effetti, sono l’unico elemento dove non c’è il tocco del regista.
Molti potrebbero dire che il film è noioso, ma la lentezza e la macchinosità con cui a volte la storia procede sono funzionali al percorso psicologico del protagonista: il tempo è immobilizzato sull’idea di vendetta di Todd, lui non riesce a pensare che a quello, è come se la sua mente e il suo corpo non percepissero altro, e di conseguenza il tempo è dilatato e fermo.
Un film unico nel suo genere, che nasconde molte più riflessioni di quanto non appaia in realtà: i tempi moderni visti dall’occhio di un regista visionario e anomalo.
La pellicola è di quelle che divide il pubblico in due fazioni: quelli che lo considerano un mero esercizio artistico noioso e a volte troppo cruento e quelli che lo ritengono un capolavoro.
Io sono sicuramente tra i secondi.


La citazione: “Tornerò quando avrà un giudice nel menù!”

Voto:

Curiosità: praticamente mancava solo Daniel Radcliffe e il film poteva essere uno spin-off di Harry Potter: infatti sia Rickman, Bonham Carter che Spall sono nel cast dei film sul maghetto creato da J.K. Rowling!

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